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QUANDO CONDIVIDERE DIVENTA REATO

Avere la stessa opinione di chi scrive un post sui social, a volte porta a condivere sul proprio profilo. Ma se questo risulta offensivo o diffamatorio ci mette allo stesso livello dell’autore.

Quando si condivide sulla propria bacheca un post offensivo altrui è pacifica per la Giurisprudenza la configurazione del reato di Diffamazione Aggravata ex Art. 595, comma 3, C.P. in quanto il gesto compiuto, è sicuramente cosciente e volontario volto inoltre ad aumentare
la visibilità del post offensivo mediante la sua visualizzazione da parte di tutti i nostri contatti.

I COMMENTI
Fa invece ancora discutere il caso in cui un utente abbia pubblicato un commento intervenendo in una discussione su un post altrui dove siano presenti messaggi di altri utenti dal contenuto offensivo.
In questi casi occorre investigare sulla forma del messaggio postato dall’utente nonchè sull’esposizione del commento.
Secondo la Cassazione infatti chi abbia inserito su Facebook un messaggio privo di intrinseca portata offensiva non può rispondere del reato di diffamazione per il solo fatto che tale messaggio sia stato pubblicato nel contesto di una discussione durante la quale altri partecipanti abbiano in precedenza inviato messaggi contenenti espressioni offensive.
Dunque, se l’utente Facebook, pur dimostrando con il proprio commento di
condividere la critica iniziata da altri, partecipi al treat di discussione che ne è scaturito,ma non ha condiviso le forme espressive illecite attraverso cui gli altri soggetti l’abbiano promossa, non può essere condannato (Cass. sent. n. 3981/2015). Non può avere rilevanza penale la condotta di chi abbia inteso sì condividere una critica nei confronti della persona offesa, ma nel farlo sia rimasto entro i limiti ben definiti dell’esercizio del proprio diritto di manifestazione del pensiero, senza eccedervi in alcun modo ed esercitando invece tale suo diritto nei limiti della continenza richiesta dall’ordinamento, quindi senza ricorrere alle espressioni offensive utilizzate da altri, nè dimostrando di volerle amplificare attraverso il proprio comportamento (Cassazione penale, sez. V, sentenza 29/01/2016 n° 3981)

Il reato, invece, sussiste – ad ogni effetto di Legge – anche nei confronti di colui che si limita ad aggiungere al post originale un successivo

COMMENTO AVENTE LA MEDESIMA PORTATA OFFENSIVA.
La condotta di postare un commento sulla bacheca Facebook, per la idoneità del mezzo utilizzato, realizza – infatti – la pubblicizzazione e la diffusione del commento stesso, nonché la sua circolazione tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica (cfr.Trib. di Campobasso, Sez. pen., sent. n. 396/2017).

Ne consegue che anche la reputazione di una persona che per taluni aspetti sia stata già compromessa, può divenire oggetto di ulteriori illecite lesioni giacché gli elementi diffamatori aggiunti ben possono comportare una maggiore diminuzione (ovvero maggiore lesione) della reputazione della persona offesa nella considerazione dei consociati (cfr. Trib. di
Campobasso, Sez. pen., sent. n. 396/2017; Cass. Sez.V, 47452 del 7 dicembre 2004).

Stefania Giribaldi

LIKE FACEBOOK, OCCHIO ALL’EFFETTO BOOMERANG

Un pollice verso o un cuoricino come segno di gradimento, può compiacere all’autore del post, ma a volte questo potrebbe avere effetti sgradevoli con il conseguente intervento della Autorità Giudiziaria


Un like su Facebook costituisce un’attività effettuata con estrema facilità, a volte con leggerezza e in modo compulsivo. Così è facile non pensare alle conseguenze che potrebbero derivarne.
Infatti,

Se il post a cui mettiamo il nostro “Mi Piace” presenta dei contenuti offensivi o addirittura razzisti e/o discriminatori, la nostra attività potrebbe essere considerata penalmente rilevante e potremmo, anche, subire un processo con l’accusa di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma 3 c.p.

In Italia esistono al momento soltanto due casi di rinvio a giudizio per
diffamazione aggravata a seguito di like aggiunti a contenuti postati su FB da altri soggetti.
Il primo riguarda 7 persone accusate di aver apprezzato un post che accusava il sindaco e alcuni dipendenti comunali del comune San Pietro Vernotico (Brindisi) di essere “fannulloni e assenteisti”.
Il secondo, contestato dalla procura di Genova ad alcuni soggetti che apposero il like ad un post dal contenuto razzista nei confronti dell’ etnia rom.
Va comunque sottolineato che, se il post contiene anche insulti razzisti e discriminatori (come nel suddetto caso all’ esame della procura di Genova), si corre il rischio di essere incriminati per “incitamento all’ odio raziale”, secondo quanto previsto dalla L. 25 giugno 1993 n. 205 (c.d. legge Mancino).

Nell’ attesa di una prima pronuncia dei tribunali italiani in merito, dal momento che nessun procedimento si è ancora concluso con l’emanazione di una sentenza, appare molto difficile che si pervenga ad una condanna per diffamazione a causa di un apprezzamento lasciato su un post altrui di Facebook.
Infatti, secondo quanto previsto dal nostro ordinamento, la diffamazione è
un reato doloso, ovvero l’autore deve agire con coscienza e volontà di
commettere il reato per poter essere dichiarato colpevole.

Un like può sì avere un effetto rilevante, perché fa apparire il post apprezzato sulla home di Facebook dei nostri amici, contribuendo, così, ad aumentare la diffusione del post diffamatorio,


Tuttavia l’accusa dovrebbe dimostrare la coscienza e la volontà del gesto, cosa che risulta alquanto improbabile dal momento che mettere un “like” costituisce un gesto quasi automatico, che molte persone compiono con estrema leggerezza, a volte anche soltanto per compiacere l’autore del post, senza averne preventivamente esaminato con attenzione il contenuto.


Inoltre, accade spesso, che un “mi piace” possa essere messo per sbaglio o
disattenzione, specialmente se l’autore ha operato tramite uno smartphone touchscreen, cui basta sfiorare lo schermo per far partire involontariamente degli apprezzamenti a post di cui non si è nemmeno a conoscenza.

Ad oggi l’unica sentenza di condanna emessa nei confronti di un soggetto che aveva ripetutamente “apprezzato” dei post su Facebook è quella emessa dal
TRIBUNALE DI ZURIGO
La vicenda risale a giugno 2017, quando un giudice distrettuale di Zurigo, ha condannato un uomo di 45 anni al pagamento di una multa di 4.000 Franchi poiché colpevole di aver espresso, per ben 6 volte, il proprio gradimento con il classico “Mi piace“, a delle espressioni ingiuriose nei confronti, di un esponente animalista.
In sostanza il condannato aveva approvato le accuse di antisemitismo e razzismo, rivolte al suddetto esponente da altri frequentatori di Facebook, cui aveva concesso la propria amicizia.
Il 45enne finito sotto processo in seguito a una denuncia da parte del soggetto a cui erano rivolti i post infamanti, non è riuscito ad ottenere l’assoluzione neppure dimostrando che le accuse più recenti, nei confronti di quest’ultimo, avessero fondamento.

IN CONCLUSIONE
il consiglio è quello di verificare con attenzione il contenuto
dei post che si vanno ad apprezzare, per evitare di essere comunque coinvolti in spiacevoli vicende giudiziarie; in ogni caso, stenersi dal pubblicare, condividere e approvare qualsiasi post che possa risultare offensivo e diffamatorio nei confronti di un altro soggetto.

Ciò anche nell’ ottica di un uso più responsabile e civile dei social network e delle immense potenzialità che la rete ci offre.

Stefania Giribaldi

BULLISMO SU WHATSAPP, LA PROCURA INDAGA

Un gruppo sulla popolare chat creato da sette studenti delle medie contro una compagna di classe disabile, ha sbigottito l’opinione pubblica sul fenomeno. Ecco cosa prevede la legge.

La cronaca recente ha riportato l’attenzione pubblica sulla vicenda di una ragazzina presa di mira dai compagni di una scuola media piacentina. (Leggi qui l’articolo di Piacenza24)
La Polizia locale, allertata dalla madre della ragazza sta indagando su questa grave vicenda in cui la vittima ha sviluppato anche sintomi fisici in seguito alla somatizzazione delle gravi offese subite nella chat di gruppo intitolata “Noi ti odiamo”, in cui lei stessa era stata inserita per essere poi bersaglio di pesanti e ripetuti insulti.
Gli atti dell’inchiesta sono stati trasmessi al Tribunale dei minori di Bologna dove la Procura ha indagato gli autori del fatto per violenza privata continuata, minacce e diffamazione, anche se la loro posizione è destinata a essere archiviata in considerazione della giovane età.
In merito all’età degli autori di un reato, va segnalato, comunque, che, nei casi di particolare gravità, l’art. 224 c.p. prevede che

” Qualora il fatto commesso da un minore degli anni quattordici sia preveduto dalla legge come delitto, ed egli sia pericoloso, il giudice, tenuto specialmente conto della gravità del fatto e delle condizioni morali della famiglia in cui il minore è vissuto, ordina che questi sia ricoverato nel riformatorio giudiziario o posto in libertà vigilata […]”

Ugualmente risulta possibile agire in sede civile nei confronti degli esercenti la potestà genitoriale sugli autori del reato posto che, ai sensi dell’art. 2048 c.c.

“Il padre e la madre, o il tutore sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi […]”

In riferimento al caso specifico di diffamazione commessa mediante insulti su un gruppo Whathapp si richiama una recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione, sez. V pen. n. 7904 del 20 febbraio 2019 contenente due importanti precisazioni:
la prima concerne l’irrilevanza del fatto che tra i membri del gruppo sia inserita anche la persona nei cui confronti vengono formulate le espressioni offensive posto che, sebbene il mezzo utilizzato consenta, in astratto, anche alla “vittima” di percepire direttamente l’offesa, il fatto che il messaggio sia diretto ad una cerchia più ampia di fruitori – i quali peraltro potrebbero venirne a conoscenza in tempi diversi – fa sì che l’addebito lesivo si collochi in una dimensione ben più ampia rispetto a quella interpersonale tra offensore e offeso: di qui l’offesa alla reputazione della persona ricompresa nella cerchia dei destinatari del messaggio.
la seconda riguarda il valore probatorio attribuito alla stampa dei messaggi di contenuto offensivo, estrapolata dal “display” di un telefono cellulare nella disponibilità della persona offesa, certamente utilizzabile alla stregua di prova documentale, ai sensi dell’art. 234 c.p.p. che consente

“l’acquisizione di scritti e documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia o qualsiasi altro mezzo” della quale non è disconosciuta la genuinità”.

Stefania Giribaldi